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Sindrome di Stendhal

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Lo scrittore francese Marie-Henri Beyle, meglio conosciuto come Stendhal.

Stendhal

 

La sindrome di Stendhal, detta anche sindrome di Firenze (città in cui si è spesso manifestata), è il nome di una affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza, specialmente se esse sono compresse in spazi limitati. La malattia, piuttosto rara, colpisce principalmente persone molto sensibili e fa parte dei cosiddetti “malanni del viaggiatore”.

Il nome della sindrome si deve allo scrittore francese Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle (1783 – 1842). Egli, essendone stato personalmente colpito durante il proprio Grand Tour effettuato nel 1817, ne diede una prima descrizione che riportò nel libro Roma, Napoli e Firenze:

« Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere. »

Il riconoscimento scientifico della sindrome di Stendhal, sebbene numerosi casi fossero stati descritti dalla prima metà del XIX secolo, avvenne nel 1979, quando fu analizzata in un libro dalla psichiatra Graziella Magherini, che osservò e descrisse più di 100 casi fra i visitatori del capoluogo toscano. La sindrome fu diagnosticata per la prima volta nel 1982 e, secondo quanto riportato, più della metà delle sue vittime sono di matrice culturale europea (esclusi gli italiani, che ne sono immuni per affinità culturale) e giapponese. Fra i più interessati, vi sono individui di formazione culturale classica o religiosa che spesso vivono da soli.

La visita ad un museo, dove il visitatore è colpito dal senso profondo di una o più opere e dalla relazione di queste con i loro creatori che trascende le immagini ed i soggetti, rappresenta spesso il fattore scatenante la crisi; essa si manifesta inizialmente con comportamenti molto vari che possono giungere anche ad un’isteria, la quale può spingere il soggetto alla distruzione del prodotto artistico. Il disagio causato dalla vista di un’opera è generalizzato in un primo momento a un diffuso stato di inettitudine sia mentale che fisico, il quale verrà poi sostituito dopo un periodo di “adattamento” a una nuova allucinazione; questo stato, spesso confuso con uno stato psicotico e non facilmente scindibile, si protrae per l’arco della vita alla visione di opere dello stesso autore o di quelle che la psiche del soggetto tende ad associare per contenuti, fino ad arrivare a una sorta di delirio causato da una sensazione di omnicomprensione e libertà intellettuale generalizzata dovuta a una distanza minore tra l'”intelletto” degli autori e il proprio, colmando apparentemente il divario tra lo stato di finitudine provato con l’opera iniziale e questa nuova espansione cognitiva.

In età contemporanea è stato scoperto che anche la musica moderna, di forte impatto psicologico ed emotivo, può essere causa di stati molto simili a deliri comuni e allucinazioni, la cui diagnosi è tuttavia accostabile di preferenza alla psicosi.

Disagi simili

– Sindrome di Gerusalemme: simile a quella di Stendhal ma rapportata all’ambito religioso.

– Sindrome di Parigi (o sindrome di Notre-Dame): analoga alla precedente.

SINDROME DI STENDHAL QUANDO L’ARTE DIVENTA “ANGOSCIA”

novembre 12th, 2012 10:24 PM

 

L’amore per l’arte può essere una dote innata, può essere coltivata sin da piccoli grazie ad insegnamenti lungimiranti, a genitori appassionati oppure può giungere in età adulta grazie ad un incontro “fortuito” con questo mondo.Le ragioni che spingono ad appassionarsi all’arte sono tante, come molteplici sono i motivi per cui tante persone ne rimangono estasiate. Chi ha questa passione sin da piccolo e ha il modo di coltivarla si può ritenere una persona molto fortunata; anche se il privilegio più grande non è essere spettatori ma creare l’arte, talento che solo pochi purtroppo possiedono. L’arte può svilupparsi nelle più svariate forme creative di espressione estetica puntando a trasmettere emozioni che cambiano in base alle caratteristiche del soggetto che le recepisce. Esempi di produzioni artistiche comprendono la pittura, la scultura,l’architettura, la musica, la poesia, la danza, il cinema, ecc. L’aspetto psicologico ha un grande peso nell’ambito artistico in quanto un’opera d’arte è spesso elaborata in un periodo particolare della vita dell’artista e ciò lo rende ancor più capace di trasmettere emozioni. Di particolare interesse sono le reazioni emotive delle persone che si trovano ad ammirare opere d’arte. In psichiatria e psicologia esiste una particolare reazione correlata al mondo dell’arte: denominata Sindrome di Stendhal o di Firenze. Tale sindrome è stata cosi definita perché quando nel 1817 lo scrittore francese Stendhal (Marie Henry Beyle) si recò nel capoluogo toscano per visitare le opere d’arte, visse un’esperienza di estasi incredibile, mai provata prima di fronte a tanta bellezza e manifestazione dell’arte. Nel suo libro (Viaggio in Italia da Milano a Reggio) è degna di nota questa frase scritta dopo la visita alla B di Santa Croce a Firenze: “ la, seduto su un gradino di un inginocchiatoio, la testa abbandonata sul pulpito, per poter guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano (Baldassarre Franceschini: pittore 1611-1689) mi hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura. Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze e la vicinanza dei grandi uomini dei quali avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quello che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere “. In pratica, si tratta di un disturbo psicosomatico transitorio che si manifesta con forme di attacchi di panico, di carattere depressivo-euforico e di disperazione del mondo esterno che diventa persecutorio; i sintomi più comuni sono: tachicardia, vertigini, confusione e allucinazioni in seguito ad esposizione ad opere d’arte particolarmente belle, significative e concentrate in uno spazio limitato. Ha un’incidenza piuttosto bassa e colpisce principalmente turisti europei e giapponesi, mentre gli italiani solitamente ne sono immuni per affinità culturale. E’ una sindrome che capita spesso a Firenze data l’alta percentuale di opere presenti nella città. Spesso la crisi si manifesta quando la persona sta visitando un museo e rimane in una forma di estasi contemplativa delle opere in esposizione, trascendendo l’immagine che ha di fronte fino a immedesimarsi nell’opera stessa. E’ frequente in persone sensibili, emotive, facilmente suggestionabili e che possiedono molta immaginazione. Durante la crisi si animano “ vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale e il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé (Graziella Magherini-1989). E’ interessante riflettere sul funzionamento della mente nel viaggio e nel confronto fra sé e l’opera d’arte. In particolare le opere che possono generare la Sindrome di Stendhal sono diverse a seconda di chi le ammira, anche se si è notato come sia più probabile che il disturbo si verifichi di fronte ad opere cariche di significati simbolici, ambivalenti, sensuali e perturbanti che possono andare a toccare aspetti dell’inconscio inesplorati o rimossi. Infatti le caratteristiche peculiari del linguaggio dell’arte possono far emergere elementi della storia del soggetto, riportando alla luce esperienze emozionali rimosse dall’inconscio o anche aspetti di sé stessi non ben chiariti. Per questo motivo la persona, costretta dall’esperienza estetica ad avere questo impatto con il suo mondo interiore, può reagire negativamente e manifestare segni di disagio. Infatti chi inizia a soffrire della Sindrome di Stendhal non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma piuttosto cade preda dell’angoscia, aspetto che indica una difficoltà a gestire le emozioni che esulano dal proprio mondo interiore. In pratica vi sono tre variabili che si intersecano: il viaggio, seppur perturbante, la bellezza dell’arte e la storia personale. La Sindrome di Stendhal si verifica quando la congiunzione di questi tre elementi diventa destabilizzante fino a rompere l’equilibrio della persona. In riferimento a questo disturbo si parla anche di “ turismo dell’anima “, termine affascinante che, estrapolato dal contesto specifico, forse si dovrebbe usare, a mio modesto parere, più frequentemente nell’arco della vita, poiché in senso lato denota la voglia di viaggiare, ma al contempo racchiude un atteggiamento volto alla scoperta de sé.
Dott. Antonio Cantelmo Medico-Chirurgo, Specialista in Psicologia Clinica e Psicoterapia, Dirigente Medico ASL Caserta, Membro della Società Italiana di Psichiatria – Pratella ( CE)

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AFORISMI SULL’ARTE

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L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.

Theodor Adorno, Minima moralia, 1951

 

Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.

Theodor Adorno, Minima moralia, 1951

 

Chi dice arte dice menzogna.

Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, 1831

 

Uno dei compiti principali dell’arte è sempre stato quello di creare esigenze che al momento non è in grado di soddisfare.

Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936

 

Chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue.

Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, 1952

 

La scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l’arte è un’interpretazione di quel miracolo.
Ray Bradbury, Cronache marziane, 1950

 

Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe.

Albert Camus, Il mito di Sisifo, 1942

 

Alla domanda: − Che cos’è l’arte? − Si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia.

Benedetto Croce, Breviario di estetica, 1912

 

Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione, ecco l’arte.

Benedetto Croce, Breviario di estetica, 1912

 

L’arte, come la teologia, è una frode ben confezionata.
Philip K. Dick, La trasmigrazione di Timothy Archer, 1981

 

L’arte non imita, interpreta.

Carlo Dossi, Note azzurre, 1870/1907 (postumo 1912/64)

 

Se c’è sulla terra e fra tutti i nulla qualcosa da adorare, se esiste qualcosa di santo, di puro, di sublime, qualcosa che assecondi questo smisurato desiderio dell’infinito e del vago che chiamano anima, questa è l’arte.

Gustave Flaubert, Memorie di un pazzo, 1838

 

Ama l’arte; fra tutte le menzogne è ancora quella che mente di meno.

Gustave Flaubert, Lettere a Louise Colet, 1846/55

 

Farci sentire piccoli nel modo giusto è una funzione dell’arte; gli uomini possono farci sentire piccoli solo nel modo sbagliato.

Edward Morgan Forster, Due applausi per la democrazia, 1951

 

Non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte.

Johann Wolfgang Goethe,Le affinità elettive, 1809

 

In arte soltanto l’ottimo è buono abbastanza.

Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, 1817

 

Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio.
Hermann Hesse, Klein e Wagner, 1919

 

L’arte rende l’ignoto evidente.

Jean Josipovici,Pensieri in rotta, 1989

 

L’arte è il concreto articolo di fede e aspettativa, la realizzazione di un mondo che altrimenti sarebbe poco più di un velo di inutile consapevolezza teso su un golfo di mistero.

Stephen King, Duma Key, 2008

 

Arte è ciò che il mondo diventerà, non ciò che il mondo è.

Karl Kraus, Pro domo et mundo, 1912

 

L’amore e l’arte non abbracciano ciò che è bello, ma ciò che proprio grazie al loro abbraccio diventa bello.

Karl Kraus, Di notte, 1918

 

L’arte non è uno specchio per riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo.

Vladimir Majakovskij, su The guardian, 1974

 

Non si può creare un’arte che parli all’uomo se non si ha niente da dire.

André Malraux,La speranza, 1937

 

Che cosa è l’arte? Ciò per cui le forme diventano stile.

André Malraux, Le voci del silenzio, 1951

 

L’arte è un antidestino.

André Malraux, Le voci del silenzio, 1951

 

Come l’amore, l’arte non è piacere, ma passione.

André Malraux, Le voci del silenzio, 1951

 

L’arte è un bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi, grande inaffiatoio di eroismo che inonda il mondo.

Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 1912

 

L’arte, questo prolungamento della foresta delle vostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell’infinito dello spazio e del tempo.  

Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 1912

 

L’arte è per noi inseparabile dalla vita. Diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice. 

Filippo Tommaso Marinetti, Democrazia futurista, 1919 

 

L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita.

Henry Miller, The Wisdom of the Heart, 1941

 

Il più grande nemico dell’arte è il lusso, l’arte non può vivere nella sua atmosfera.

William Morris, La bellezza della vita, 1880

 

L’arte, se ci libera dai feticci assenti e astratti, ci libera anche dalle idee generose e dalle preoccupazioni sociali – ugualmente feticci.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (postumo)

 

L’arte è un sottrarsi all’azione o alla vita. L’arte è l’espressione intellettuale dell’emozione, distinta dalla vita, che è l’espressione volitiva dell’emozione.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (postumo)

 

L’arte consiste nel far sentire agli altri quello che sentiamo, nel liberarli da loro stessi, proponendo loro la nostra personalità come liberazione speciale.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (postumo)

 

L’arte ci libera illusoriamente dalla sordidezza di essere. Mentre sentiamo i mali e le ingiurie di Amleto, principe di Danimarca, non sentiamo i nostri – vili perché sono nostri e vili perché sono vili.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (postumo)

 

Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita? Perché è tutta fini e propositi e intenzioni.

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (postumo)

 

L’arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità.

Pablo Picasso

L’esperienza artistica è così incredibilmente prossima a quella sessuale, alle sue pene e ai suoi piaceri, che i due fenomeni non sono in realtà che forme diverse di una identica brama e beatitudine.

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, 1903/08

 

Adesso posso dire che l’arte è una sciocchezza.

Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno, 1873

 

Si può dire dell’arte quel che il cinico Antistene diceva del concetto: “è ciò che esprime l’essenza durevole delle cose”.

Ardengo Soffici, Giornale di bordo, 1915

 

Arte. Un modo per entrare in contatto con la propria follia.

Susan Sontag, Diario, 1958/67

 

L’interpretazione è la vendetta dell’intelligenza sull’arte.

Susan Sontag, Contro l’interpretazione, 1966

 

In arte l’unica regola è che non ci sono regole. Ma anche questa è spesso trasgredita.

Giovanni Soriano, Maldetti. Pensieri in soluzione acida, 2007

 

L’arte è il luogo della perfetta libertà.

André Suarès, Poète tragique, 1921

 

Ci si deve sostenere con braccia coraggiose in mezzo al caos delle rovine, nel quale la nostra vita è sminuzzata, e attaccarci fortemente all’arte, alla grande, alla duratura arte, che, al di sopra di ogni caos, attinge l’eternità – l’arte che dal cielo ci porge una mano luminosa, così che noi stiamo sospesi in ardita posizione, sopra un abisso deserto, fra cielo e terra.

Wilhelm Heinrich Wackenroder, Fantasie sull’arte per amici dell’arte, 1799 (postumo)

 

Ci sono due modi di non amare l’arte. Uno è di non amarla. L’altro di amarla razionalmente. 

Oscar Wilde, Il critico come artista, 1889

 

Non v’è Arte là dove non v’è stile.

Oscar Wilde, Il critico come artista, 1889

 

L’arte non deve mai tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico.

Oscar Wilde, L’anima dell’uomo sotto il socialismo, 1891

 

L’arte rispecchia lo spettatore, non la vita.

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1891

 

Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte.

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1891

 

Tutta l’arte è completamente inutile.

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1891

 

L’Arte comincia là dove l’Imitazione finisce.

Oscar Wilde, De profundis, 1897 (postumo, 1962)

 

In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente.

Ludwig Wittgenstein,Pensieri diversi, 1934/37

Altri Aforismi sullArte

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AFORISMI SULL’ARTE

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Paul Cézanne
Procedo molto lentamente, perché la natura è per me estremamente complessa, e i progressi da fare sono infiniti. Non basta vedere bene il proprio modello, bisogna anche sentirlo con esattezza, e poi esprimersi con forza e chiarezza.

La luce è una cosa che non può essere riprodotta ma deve essere rappresentata attraverso un’altra cosa, attraverso il colore. Sono stato contento di me, quando ho scoperto questo.

Ho una sensazione lieve, ma non riesco ad esprimerla. Sono come uno incapace di usare la moneta d’oro in suo possesso.

L’artista deve temere lo spirito da letterato che porta così spesso il pittore ad allontanarsi dalla sua vera strada: lo studio concreto della natura.

Il disegno ed il colore non sono affatto distinti. Man mano che si dipinge, si disegna. Più il colore diventa armonioso, più il disegno si fa preciso.

Dipingere non è copiare servilmente il dato oggettivo, è cogliere un’ armonia fra rapporti molteplici e trasporli in una propria gamma, sviluppandoli secondo una logica nuova e originale.

Samuel Taylor Coleridge

L’Arte, intendendo il termine per indicare collettivamente pittura, scultura, architettura e musica,
è la mediatrice e riconciliatrice di natura e uomo.
È dunque il potere di umanizzare la natura,
di infondere i pensieri e le passioni dell’uomo
in tutto ciò che è l’oggetto della sua contemplazione.

Gustave Courbet

Se i quadri si potessero spiegare e tradurli in parole, non ci sarebbe bisogno di dipingerli.

De Goncourt

Imparare a vedere, è il tirocinio più lungo in tutte le arti.

Eugène Delacroix

La prima virtù di un dipinto è essere una festa per gli occhi.

Gustave Flaubert

L’ autore deve essere nella sua opera d’arte come Dio nell’universo, onnipresente e invisibile.
Théophile Gautier

Tutto passa; solo l’arte robusta è eterna.

Victor Hugo

Nel poeta e nell’artista c’è l’infinito.

Jean-Dominique Ingres

I capolavori non sono fatti per sbalordire. Sono fatti per persuadere, per convincere, per entrare in noi attraverso i pori.

Pablo Picasso

 -Tutto l’interesse dell’arte è nel principio. Dopo il principio, è già la fine.

– La pittura è più forte di me; mi costringe a dipingere come vuole lei.

– I colori, come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni.La scultura è il commento migliore che un pittore può fare sulla pittura.

– L’arte non è l’applicazione di un canone di bellezza ma ciò che l’istinto e il cervello elabora dietro ogni canone. Quando si ama una donna non si comincia sicuramente a misurarle gli arti.

– Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole.

– Gli accidenti, cercare di cambiarli… è impossibile. L’accidentale rivela l’uomo.

– Attraverso l’arte noi esprimiamo la nostra concezione di ciò che la natura non è. L’arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità.

– Quando uno inizia un ritratto e cerca per successive eliminazioni di trovare la forma pura… si finisce inevitabilmente con un uovo.

– Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi.

– La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto.

– Le persone in genere non sono così brutte come vengono ritratte.

– La scultura è l’arte dell’intelligenza.

– Perché in casa mia non ci sono appesi miei dipinti? È perché non posso permettermeli.

– Dipingere non è un’operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo ed ostile e noi.

– La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico.

Edvard Munch

“Io non dipingo ciò che vedo: Ma ciò che ho visto.
La verità è che siamo soliti vedere con occhi diversi in momenti diversi. Accade di vedere diversamente al mattino rispetto alla sera. Il modo di vedere dipende anche dalla condizione mentale ed emotiva. Questa è la ragione per cui un determinato soggetto può essere visto da così numerose angolature, ed è questo a render l’arte tanto attraente. Se si entra in un salotto al mattino, provenendo dal buoi di una camera da letto, tutto ciò che cade sotto gli occhi assume una tonalità bluastra.
Persino le ombre più scure sfumano dentro a questa atmosfera diafana.
In breve tempo gli occhi si abitueranno alla luce, le ombre si anneriranno e ogni cosa diverrà più netta. […] Bisognerebbe dipingere oggetti esattamente come si crede che siano, così com’erano quando il loro insieme tematico ha prodotto quell’impressione così vivida.
Se non si è in grado di dipingere utilizzando la memoria, si deve ricorrere a un modello, ancorchè sia in parte in autentico.
Noi aspiriamo a qualcosa di ben superiore che a una banale riproduzione fotografica della natura.
Non intendiamo dipingere graziose immagini che abbelliscano le pareti di un soggiorno.
Desideriamo tentare, a volte fallendo, di dar forma alle fondamenta dell’arte, un vero dono per l’intera umanità. Arte in grado di emozionare e commuovere. Un’arte che nasca dal sangue del cuore. ”

 Leonardo da Vinci

Non ingombrarti di cose che appartengono agli occhi, facendole passare dalle orecchie!

Fai alle tue figure dei capelli che un vento invisibile sembri far danzare intorno ai loro volti giovanili; con grazia ornali di vari ricci, e non imitare coloro che con la colla danno a quei volti un’aria vetrificata. Ogni parte di un insieme deve essere proporzionato all’insieme.

Io, Leonardo, un giorno conoscerò ogni cosa e saprò dominare tutte le arti che aprono all’uomo le vie dei grandi segreti dell’universo.

L’uomo ha in sé le ossa che sostengono la sua carne; il mondo ha le pietre che sostengono la sua terra.

Il dipintore disputa e gareggia colla natura. L’uomo è il modello del mondo.

Virtutem forma decorat: La bellezza orna la virtù

Il pittore che ritrae per pratica e giudizio d’occhio sanza ragione è come lo specchio, che in sé imita tutte le a sé contrapposte cose, sanza cognizione d’esse.

Li omini e le parole son fatti. E tu, pittore, non sapiendo operare le tue figure, tu se’ come l’oratore che non sa adoperare le parole sue.

Si dipinge col cervello e non con le mani.

Umberto Saba

•L’opera d’arte è sempre una confessione


Camillo Boito

•Il dolore fa il poeta; ma la gioia fa il pittore.

Georges Braque

•Se il pittore non disprezza la pittura, paventi di fare una tela che valga più di lui.


Hugo Von Hofmannsthal

•La pittura trasforma lo spazio in tempo, la musica il tempo in spazio.


Blaise Pascal

•Che cosa vana la pittura, ammirata perché assomiglia a cose di cui non ammiriamo affatto gli originali!


Jackson Pollock

•Dipingere è azione di autoscoperta. Ogni buon artista dipinge ciò che è.

Salvator Rosa

•Quel che aborriscon vivo, amano dipinto.

Simonide

• La pittura è poesia silenziosa, e la poesia è pittura che parla.

Paul Valéry

•Il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà.

James Abbott McNeill Whistler

• Dire al pittore che la natura va presa com’è è come dire al pianista che può sedersi sul pianoforte.

Daniel Barenboim

• Ogni grande opera d’arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l’eternità.

Gustave Le Bon

• Il vero artista crea, copiando

Edouard Manet

• In una figura, cercate la grande luce e la grande ombra, il resto verrà da sé.

Blaise Pascal
I grandi geni hanno il loro impero, il loro splendore, la loro grandezza, la loro vittoria, il loro lustro, e non hanno affatto bisogno delle grandezze materiali.

Platone

Il bello è lo splendore del vero.

Johann Wolfgang von Goethe
Natura e arte sembrano fuggirsi, e si ritrovano prima che s’immagini.
Il bello è una manifestazione di arcane leggi della natura, che senza l’apparizione di esso ci sarebbero rimaste eternamente celate.

Julie Rettich

Devi dedicarti tutto all’arte tua e non a metà; altrimenti non servi né all’arte né alla vita.

 John Ruskin
Il musicista compone un’aria mettendo insieme delle note in certe date relazioni; il poeta compone una poesia mettendo insieme in bell’ordine pensieri e parole; e il pittore un quadro mettendo in bell’ordine pensieri, forme e colori.

La cosa più alta che possa far l’arte è di darvi la fedele immagine della presenza d’un nobile essere umano. Essa non ha mai fatto più di questo, e non dovrebbe fare di meno.

Il paesaggio può esser compreso e gustato dalle persone raffinate; e la raffinatezza si può soltanto avere dalla musica, dalla letteratura e dalla pittura.

Friedrich Schiller

Facendo il bene, nutrisci la pianta divina dell’umanità; formando il bello, spargi i semi del divino.

William Makepeace Thackeray

L’arte è verità, e la verità è religione.

 James Abbott McNeill Whistler

Dire al pittore che la natura deve esser presa com’è, è come dire al pianista che può sedersi sul pianoforte.

Emile Deschamps
La poesia è una pittura che si muove e una musica che pensa.

Jean Pierre Richard
Il grande vantaggio della pittura astratta sta nel fatto che la moglie e i figli possono continuare un quadro quando papà si ammala.

Pierre Auguste Renoir

Per me, un dipinto deve essere una cosa amabile, allegra e bella, sì, bella. Ci sono già abbastanza cose noiose nella vita senza che ci si metta a fabbricarne altre. So bene che è difficile far ammettere che un dipinto possa appartenere alla grandissima pittura pur rimanendo allegro. La gente che ride non viene mai presa sul serio.

Com’é difficile capire nel fare un quadro qual è il momento esatto in cui l’imitazione della natura deve fermarsi. Un quadro non è un processo verbale. Quando si tratta di un paesaggio, io amo quei quadri che mi fanno venir voglia di entrarci dentro per andarci a spasso.

Resto al sole non tanto per eseguire dei ritratti in piena luce, ma per scaldarmi e per osservare. Così, a forza di vedere l’esterno, ho finito con l’accorgermi solo delle grandi armonie senza più preoccuparmi dei piccoli dettagli che spengono il sole anziché infiammarlo.

Quando, immersi nel silenzio, sentiamo tutt’a un tratto squillare il campanello, abbiamo l’impressione che il rumore sia molto più stridente di quanto lo sia effettivamente. Ebbene! Io cerco di far vibrare un certo colore in modo così intenso come se il rumore del campanello risuonasse in mezzo al silenzio

 Vincent Van Gogh

Faccio sempre ciò che non so fare, per imparare come va fatto.

Non è tanto il linguaggio del pittore che si deve sentire, quanto quello della natura.

Ciò che desidero, è che tutto sia circolare e che non ci sia, per così dire, né inizio né fine nella forma, ma che essa dia, invece, l’idea di un insieme armonioso, quello della vita.

Così il pennello sta alle mie dita come l’archetto al violino e assolutamente per mio piacere.

Se qualcosa parla in te per dirti non sei pittore, ebbene in questo caso vecchio mio: dipingi! E questa voce tacerà. Ma tacerà solo se dipingi. Chi, ascoltando questa voce, va dagli amici a lamentarsi, a raccontare loro le sue preoccupazioni, perde un po’ della sua forza virile, un po’ del meglio che c’è in lui. Ti possono essere amici solo coloro che lottano contro queste stesse preoccupazioni, coloro che con l’esempio della loro attività, esaltano l’attività che c’è in te!

Cos’è disegnare? Come ci si arriva? E’ l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi tra ciò che si sente e che si può.

Preferisco dipingere gli occhi degli uomini che le cattedrali, perché negli occhi degli uomini c’è qualcosa che non c’è nelle cattedrali, per quanto maestose e imponenti siano.

Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui, una volta, il simbolo era l’aureola e che noi cerchiamo nell’irraggiarsi stesso e nella vibrazione delle nostre colorazioni.

La natura è il miglior modo per comprendere l’arte; i pittori ci insegnano a vedere.

 Edgard Degas
Ho visto cose bellissime, grazie alla diversa prospettiva suggerita dalla mia perenne insoddisfazione, e quel che mi consola ancora, è che non smetto di osservare.

Bisogna giudicare come massimo risultato non ciò che si è già realizzato, bensì ciò che si potrà realizzare in futuro. Diversamente è proprio inutile lavorare.


Paul Gauguin

L’arte è un’astrazione: spremetela dalla natura sognando di fronte ad essa e preoccupatevi più della creazione che del risultato.

Innanzi tutto, l’emozione! Soltanto dopo la comprensione!

Ora sono convinto più che mai che non esista arte esagerata. Credo pure che la salvezza sia solo nell’estremo.

Claude Monet

Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. Insomma, a forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente.

Ho voluto la perfezione e ho rovinato quello che andava bene.


Salvador Dalì

Il disegno è la sincerità nell’arte. Non ci sono possibilità di imbrogliare. O è bello o è brutto.

Io non sono un bravo pittore. Sono troppo intelligente per essere un bravo pittore. I bravi pittori sono stupidi, ad eccezione di Velàzquez che era un genio.

Pieter Paul Rubens
Ho deciso di costringere me stesso a spezzare questo nodo dorato dell’ambizione, per poter recuperare la mia libertà.

 Elsa Morante
L’arte è il contrario della disintegrazione. Perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà. […] La purezza dell’arte non consiste nello scansare quei moti della natura che la legge sociale censura come perversi o immondi; ma nel riaccoglierli spontaneamente alla dimensione reale, dove si riconoscono naturali, e quindi innocenti. La qualità dell’arte è liberatoria, e quindi, nei suoi effetti, sempre rivoluzionaria. Qualsiasi momento dell’esperienza reale e transitoria, diventa, nell’attenzione poetica, un momento religioso»

Pavel Florenskij
“Il compito di ogni procedimento artistico è di essere un impulso che risvegli l’attenzione alla realtà stessa. In altre parole deve diventare un linguaggio, testimone della realtà”

Pablo Ruiz Picasso

“Un quadro mentre è composto segue il mutamento del pensiero;

quand’è finito continua a cambiare,
secondo il sentimento di chi lo guarda.

Un quadro vive una propria vita come una persona…
vive soltanto attraverso l’uomo che lo guarda”.

«Quando ero piccolo sapevo dipingere come Raffaello,

mi ci è voluta però una vita intera

per imparare a disegnare come un bambino.»

 Andy Warhol

Il problema con i classicisti
è che quando guardano un albero non vedono altro
e disegnano un albero…

”L’opera d’arte è composta da due elementi:
quello interno e quello esterno.
L’elemento interno, preso singolarmente,
è l’emozione dell’anima dell’artista.
Questa emozione è in grado di suscitare
nell’animo di colui che guarda
un’emozione corrispondente…
Fincè l’anima è legata al corpo può ricevere
vibrazioni solo tramite la sensazione,
che funge quindi da ponte dall’immateriale
al materiale ( artista ) e dal
materiale all’immateriale ( osservatore ).

Emozione, sensazione, opera,

sensazione, emozione.

Wassily Kandinsky

« L’arte oltrepassa i limiti

nei quali il tempo vorrebbe comprimerla,

e indica il contenuto del futuro. »

Wassily Kandinsky

« L’arte è un’attività umana

il cui fine è la trasmissione dei più eletti e migliori sentimenti ».

Lev Tolstoj

Surrealismo – Doppio segreto – La giraffa in fiamme

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René Magritte
Il doppio segreto
( Le Double Secret )

Il doppio segreto

1927 – Olio su tela
114X162cm
Centre Georges Pompidou – Parigi

“Il doppio segreto” o “Le Double Secret” ( 1927, olio su tela, 114×162 cm, Parigi, Musée national d’Art moderne, Centre Georges Pompidou). In quest’opera domina la frammentazione del volto, due immagini distinte che possono essere riunite da un atto di violenza sulla realtà che ci troviamo davanti. Il primo segreto che ci viene rivelato è che l’immagine è qualcosa di concreto. Magritte sotto la pelle non ha posto sangue, ma ha scelto un effetto conturbante, ossia una cortecia di un albero riempita di sonagli. Un oggetto impossibile, ma che diventa reale in un quadro che vuole essere una rappresentazione dei meccanismi del pensiero, e delle storpiature a cui la realtà che si trova davanti è sottoposta.


Nei quadri di Magritte, spesso la ripetizione seriale di uno stesso elemento serve a renderlo enigmatico, a porre delle questioni che la sua esistenza singolare non farebbe emergere.

Nei quadri degli anni Venti questo espediente è particolarmente frequente, ma solo con ”Golconda” esso verrà posto in tutta la sua forza.

Nel ”Doppio segreto” non abbiamo uno sdoppiamento, ma una frammentazione.

O meglio, questo ci dice la nostra mente, che interpreta le due immagini come frammenti di uno stesso puzzle, che un minimo sforzo basta a ricomporre.

In realtà, l’occhio ci mostra due immagini distinte, e solo un atto di violenza sulla realtà che ci troviamo davanti può permettere di ricondurre a una unità; un’immagine è qualcosa di concreto, indipendente da ciò che rappresenta e dai nostri meccanismi di comprensione, e questo è il primo segreto che quest’opera ci svela.

Un analogo atto di violenza mentale ci induce a ritenere che un’immagine condivida la stessa natura dell’oggetto cui fa riferimento.

Così, se a un volto umano togliamo un frammento di pelle, o a un manichino parte del volto, ci aspetteremo di trovare sotto di esso sangue, ossa e fasci muscolari, o la superficie liscia della plastica.

Da qui l’effetto conturbante dell’immagine di Magritte, che sotto la pelle rivela la corteccia di un albero adorna di sonagli.

Un oggetto impossibile, ma che diventa reale in un quadro che vuole essere una visualizzazione dei meccanismi del pensiero, e delle storpiature cui esso sottopone la realtà che si trova di fronte.

 Ancora una volta il pittore interroga quella che noi chiamiamo la realtà. Sullo sfondo di un paesaggio marino, il viso impassibile di un uomo (o di un manichino di cera?) è stato tranciato e spostato lateralmente. La lacerazione mostra una spaccatura profonda, molto diversa dal volto liscio, senza espressione né sguardo, che la dissimulava. La maschera è stata proprio strappata, ma ciò che celava è ancora più misterioso e si rimane perplessi di fronte a questa ampia cavità dalle pareti umide e scure, avvinte da sonagli (probabilmente legati a ricordi infantili e che ritornano spesso nelle opere del pittore).

Magritte svela il baratro che separa l’essere dalla sua apparenza e conferma che la realtà resta enigmatica. Nello stesso modo, l’occhio che contiene il cielo che sta osservando (IL FALSO SPECCHIO), il vetro rotto della finestra (LA CLÉF DES CHAMPS) che continua a rimandare l’immagine del paesaggio, il dipinto (LA CONDITION HUMAINE) che nasconde il paesaggio che vorrebbe mostrare, o ancora la sostituzione dei personaggi del BALCON di Manet con bare (PERSPECTIVE) esprimono chiaramente il suo messaggio: bisogna diffidare delle apparenze, degli oggetti reali, ma anche delle immagini e dei dipinti.

Magritte ha rinunciato alle seduzioni evidenti del suo mestiere: i colori senza vivacità, la tecnica accademica e fredda che si priva anche del brio enfatico di un Dalì. Il fascino di questa opera è dovuto essenzialmente a ciò che trasmette; si presenta come riflesso della vita volutamente piccolo-borghese del pittore, una vita apparentemente tranquilla, senza incidenti né drammi manifesti se non quello del suicidio della madre, quando egli era appena quattordicenne.

 

LA GIRAFFA IN FIAMME – DALì

La giraffa in fiamme

Salvador Dalì
Giraffa in fiamme
1936-1937
Olio su tavola
35X27cm
Kunstmuseum – Basilea

Descrizione

Il titolo dell’opera si riferisce alla spettrale carne bruciata della giraffa sulla sinistra in secondo piano, che potrebbe essere la materializzazione della guerra civile, scoppiata proprio in quel momento in Spagna. La vera figura protagonista, però, è quella femminile che occupa quasi tutto lo spazio del quadro e che inaugura una nuova fisionomia di donna che ritroveremo rappresentata poi anche in altre opere. L’immagine della donna smontabile, che rivela il suo interno a cassetti, la donna stipo, priva di volto e di identità esteriore, che si scompone in protuberanze sorrette da stampelle, è un’idea nata dalla riflessione sul valore delle teorie psicanalitiche di Freud. L’artista, infatti, dichiarerà anni dopo: L’unica differenza tra la Grecia immortale e il nostro presente è Sigmund Freud, che scoprì come il corpo dell’uomo, che al tempo dei greci era puramente neoplatonico, sia oggi pieno di cassetti segreti, che solo la psicanalisi è in grado di aprire. Il surrealismo di Dalí, che da questo periodo in poi prenderà le distanze da quello ufficiale di Breton, diventa, dunque, sempre più eccentrico, incontrollabile e freudiano nel dare libero spazio alle proprie allucinazioni provocatorie, quelle che egli stesso definirà attività paranoico- critiche.


Ricompare in questo famoso quadro la figura femminile allungata con le magre braccia protese, il cui schema era già presente nel dipinto del 1934, “Arpa invisibile”, nel quale incontriamo anche un altro dei motivi daliniani di questi anni: i cassetti, per lo più semiaperti, inseriti nel corpo.

Il disegno della figura principale è anche molto vicino a quello di “Donna con la testa di rose” ( http://lottovolante.plnet.forumcommunity.net/?t=42808424 ), del 1935.

Un’altra ripresa di invenzioni assai sfruttate nei suoi quadri dei primi anni Trenta e poi un pò trascurate, è rappresentata dalle lungeh stampelle che sostengono gli strani prolungamenti distribuiti lungo il corpo.

Il motivo della giraffa potrebbe essere in relazione con il titolo di un soggetto per un film – poi mai realizzato – che Dalì in questi stessi mesi aveva scritto insieme all’attore Harpo Marx, “Giraffes on Horseback Salad“.

Renè Magritte che, lasciando da parte i primi anni di attività, non fu mai molto tenero col pittore catalano, in una lettera del 28 marzo 1959 ad Andrè Bosmans, parlando di questo dipinto scrive: “Dalì è superfluo. La sua ‘Giraffa in fiamme’ è una grottesca caricatura, una riproposta non intelligente, perchè facile e inutile, di quell’immagine che io ho dipinto mostrando un foglio di carta che brucia e una chiave in fiamme, immagine che in seguito ho precisato mostrando un solo oggetto in fiamme: una tromba. Dalì dimostra così, già da qualche tempo, di appartenere a questo mondo sordido in cui si fa visita al papa e si da valore alla pittura storico-religiosa“.


Effettivamente Dalì aveva ottenuto, il 23 novembre 1949, un’udienza da Pio XII, durante la quale gli aveva presentato una delle versioni della “Madonna di Port Ligat“.

Dadaismo – L.H.O.O.Q.

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 L.H.O.O.Q. – Marcel Duchamp

Duchamp-La-Gioconda con i baffi

« La Gioconda è così universalmente nota e ammirata da tutti che sono stato molto tentato di utilizzarla per dare scandalo. Ho cercato di rendere quei baffi davvero artistici. »
(Marcel Duchamp)

L.H.O.O.Q. è un ready-made rettificato realizzato nel 1919 dall’artista Marcel Duchamp.

Si tratta di una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da Vinci alla quale sono stati aggiunti provocatoriamente dei baffi e un pizzetto. Il titolo è sostanzialmente un gioco di parole, infatti le lettere L.H.O.O.Q. pronunciate in francese danno origine alla frase Elle a chaud au cul, letteralmente “Lei ha caldo al culo”, che significa “Lei è eccitata”. Come nel caso di altri ready-made, Duchamp ne ha realizzato diverse versioni, tra le quali anche L.H.O.O.Q. Shaved del 1965 nella quale appare la Gioconda senza baffi e la scritta in francese “rasée L.H.O.O.Q.”.

L’opera può essere considerata, in pieno spirito dadaista, un atto di dissacrazione nei confronti dell’arte. Non a caso l’artista, o come amava definirsi con un suo neologismo, anartista, ha scelto per questa sua azione l’emblema dell’arte, il simbolo della pittura per eccellenza: la Gioconda. L’intento di Duchamp è quello di spogliare l’idea stessa da opera d’arte di quell’aura di sacralità che sempre l’aveva caratterizzata.

Fontana

fontana dada

Il «ready-made» dal titolo «Fontana» rappresenta il momento di maggior provocazione dell’opera di Duchamp. Nel 1917 egli era negli Stati Uniti e in quell’anno, sul modello del Salon des Indépendants, venne creata la Society of Independent Artists. Duchamp faceva parte del direttivo di questa associazione. Alla mostra organizzata dal gruppo poteva partecipare chiunque, pagando sei dollari, ed esponendo al massimo due opere.

Duchamp mise in atto la sua provocazione in incognito. Presentò alla giuria della mostra un orinatoio firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. La giuria non capì e, sull’imbarazzo di come considerare la cosa, non fece esporre il pezzo.

Una fotografia dell’opera fu tuttavia pubblicata sulla rivista «The Blind Man», edita dallo stesso Duchamp, il quale, fingendo di difendere l’ignoto autore dell’opera, scrisse: «Non è importante se Mr. Mutt abbia fatto Fontana con le sue mani o no. Egli l’ha SCELTA. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto».

L’orinatoio originale utilizzato da Duchamp stranamente andò smarrito quando fu smontata la mostra nel 1917. Solo nel 1964 Duchamp autorizzò una replica di quel suo «ready-made» che fu acquistata dal collezionista milanese Arturo Schwarz. Da qualche anno esso è esposto nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

L’idea dei «ready-made» Duchamp l’aveva avuta qualche anno prima, quando era ancora in Francia. Ma dei diversi «ready-made» da lui realizzati, questo rimane di certo il più provocatorio ed irridente al mondo dell’arte. Opera che segna un punto di non ritorno: accettarla tra i capolavori d’arte significa essere disponibili al gioco ironico del non prendersi mai sul serio. Posizione che, tutto sommato, è da considerarsi con grande attenzione.

Metafisica – Ettore e Andromaca

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ETTORE E ANDROMACA – Giorgio De Chirico

Ettore-e-Andromaca[1]

Nel 1917, anno della creazione del capolavoro “Ettore ed Andromaca”, l’Italia è in guerra e Giorgio De Chirico si trova nell’Ospedale di Ferrara dove, essendo considerato inabile all’attività, svolge un lavoro sedentario. In quell’ambiente l’artista conosce Carlo Carrà – pittore nato a Quargnento, in provincia di Alessandria, nel 1881 e fondatore nel 1910 assieme a Marinetti, Boccioni, Russolo, Balla e Severini  del movimento futurista – e tra i due nasce un sodalizio, che sfocerà nella creazione della cosiddetta “pittura metafisica“, teorizzata di lì a poco sulla rivista “Valori Plastici“.

Tale corrente è ben sintetizzata da una frase pronunciata dallo stesso De Chirico: “Schopenhauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del non senso della vita e come tale non senso potesse venire tramutato in arte”. Il compito dell’arte, perciò, è quello di rivelare i misteri e gli enigmi della realtà che ci circonda; l’artista vede il mondo come un magnifico museo ricco di stranezze ed i suoi occhi osservano le cose come fosse la prima volta e percepiscono ciò che sta oltre la materia visibile. Le immagini, perciò, rappresentando “ciò che non si può vedere”, ossia l’inafferrabile senso che governa il mondo, creano nello spettatore sensazioni inusitate e profonde emozioni poetiche. Le atmosfere sono magiche, enigmatiche e solo apparentemente molto semplici; le raffigurazioni inizialmente mostrano una realtà che assomiglia a ciò che noi conosciamo per esperienza, mentre ad uno sguardo più attento possiamo vedere una luce irreale che colora con tinte innaturali gli oggetti ed il cielo; la prospettiva sembra costruire uno spazio geometricamente perfetto, ma invece è quasi sempre volutamente deformata, così che l’ambiente acquista un aspetto inedito; le scene urbane hanno un aspetto dilatato e vuoto, in cui predomina l’assenza di vita ed il silenzio più assoluto.

// // La figura del manichino, simbolo dell’uomo-automa contemporaneo (concetto elaborato per la prima volta dall’autore nel 1917 nell’opera in bronzo lucidato “Il grande metafisico”), fu ispirata a De Chirico dall’”uomo senza volto”, personaggio di un dramma del fratello scrittore Alberto Savinio. Anch’essi servono per manifestare la volontà di rappresentare la devitalizzazione: sono, infatti, forme prese dalla vita, ma che assolutamente ne sono prive, per cui generano una sensazione di mancato movimento e di congelamento – quasi una pietrificazione perenne – dei personaggi.

Quanto finora scritto è efficacemente sintetizzato nell’opera “Ettore ed Andromaca”: la coppia è rappresentata da due manichini, figure atemporali simboleggianti lo strazio del momento dell’addio dello sposo in partenza per la guerra;  la scenografia è immobile, tanto che le Porte Scee dipinte dietro la coppia e i due edifici ai lati potrebbero perfettamente rappresentare la scenografia di una qualsiasi città del mondo, in una qualsiasi epoca; la semplice massiccia presenza di tonalità rosse evidenziano la drammaticità del momento; infine, le ombre che si allungano fanno presagire allo spettatore l’ineluttabile fine.

 

I personaggi in primo piano sono Ettore e Andromaca, due noti protagonisti dell’Iliade. Dunque l’artista attinge al mondo epico per rappresentare una scena tragica. L’episodio a cui egli fa riferimento si trova nel sesto libro del poema: l’ultimo abbraccio presso le porte Scee, prima che il grande eroe troiano affronti in duello il greco Achille.

La tragicità della scena sta nel fatto che Ettore e Andromaca, per volontà del fato, mancano degli arti superiori, dunque il loro tentativo di un ultimo abbraccio fallisce e sono costretti a bloccarsi. Proprio nell’affrontare il loro inesorabile e avverso destino la coppia assume ancor di più una dimensione epica.Com’è noto l’eroe sapeva bene che stava andando incontro alla morte, eppure non si tira indietro e mantiene fede al suo ruolo di principe con grande coraggio, preferendo una morte gloriosa ad una vita vile.

Ettore e Andromaca sono dei manichini o figure astratte assoggettate al caso da un lato, ma dall’altro, nonostante l’apparenza, sono due esseri viventi in carne ed ossa che desiderano un contatto umano. De Chirico sceglie tra i tanti grandi personaggi epici proprio Ettore, perchè di lui ci vengono descritti gli intensi affetti verso la sua famiglia e soprattutto verso il suo piccolo Astianatte. Nessuno poteva arricchire di melanconia e solitudine l’opera meglio di lui. Inoltre l’astrattismo delle due figure “congela” il momento e lo rende senza tempo, lo proietta oltre la realtà, oltre la natura, in un’altra dimensione che è appunto quella metafisica.

Futurismo – Forme uniche della continuità nello spazio

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Forme uniche della continuità nello spazio – Umberto Boccioni

Forme uniche nella continuità dello spazio

Forme uniche della continuità nello spazio è una celebre scultura futurista di Umberto Boccioni. Rappresenta simbolicamente il movimento e la fluidità. Boccioni respinge la scultura tradizionale per creare questo pezzo, considerato uno dei capolavori del Futurismo.[1] La scultura è raffigurata sul retro delle monete da 20 centesimi di euro coniate in Italia ed è attualmente conservata al Museo del 900 di Milano.

Cenni storici

Il movimento futurista si sforzava di rappresentare la velocità e la forza del dinamismo nell’arte. Boccioni, anche se formatosi come pittore, iniziò la propria carriera di scultore nel 1912. Scrisse a un amico: “In questi giorni sono ossessionato dalla scultura! Credo di aver visto una completa rinnovazione di quest’arte mummificata.”Un anno dopo, Boccioni completò la scultura. L’obiettivo della sua opera era quello di rappresentare un “continuum sintetico” del movimento, invece di una “discontinuità analitica” che egli vedeva raffigurata da altri artisti come František Kupka e Marcel Duchamp.

Composizione

« Questo succedersi, mi sembra ormai chiaro, non lo afferriamo con la ripetizione di gambe, di braccia, di figure, come molti hanno stupidamente supposto, ma vi giungiamo attraverso la ricerca intuitiva della forma unica che dia la continuità nello spazio. »

Se si osserva lateralmente la scultura, si può riconoscere facilmente una figura umana in cammino priva però di alcune parti (ad esempio le braccia) e, per così dire, del suo “involucro” esterno. La figura appare così per un verso come uno “scorticato” anatomico (si riconoscono distintamente alcuni muscoli, come i polpacci, e l’articolazione del ginocchio), per un altro come una “macchina”, come un ingranaggio in movimento. L’opera inoltre si sviluppa mediante l’alternarsi di cavità, rilievi, piani e vuoti che generano un frammentato e discontinuo chiaroscuro fatto di frequenti e repentini passaggi dalla luce all’ombra. Osservando la figura da destra, il torso ad esempio pare essere pieno ma se si gira intorno alla statua e la si osserva da sinistra esso si trasforma in una cavità vuota. In tale modo sembra che la figura si modelli a seconda dello spazio circostante ed assume così la funzione per così dire di plasmare le forme.

Anche la linea di contorno si sviluppa come una sequenza di curve ora concave, ora convesse: in tal modo i contorni irregolari non limitano la figura come di consueto ma la dilatano espandendola nello spazio.

L’interno stesso della statua è attraversato da solchi e spigoli che “tagliano” i piani, come se le figure fossero più di una e si sovrapponessero di continuo.

Se vista lateralmente, la statua dà l’impressione di un movimento avanzante che si proietta energicamente in avanti. Tuttavia se la si guarda frontalmente o a tre quarti si può notare una torsione o avvitamento delle forme nello spazio: più di una linea infatti si avvolge attorno alla figura in un moto a spirale, coinvolgendo i diversi piani in una rotazione che suggerisce un’ulteriore espansione delle forme.

Originale e calchi

L’opera originale di Boccioni è in gesso, e non è mai stata prodotta la rispettiva copia in bronzo nel corso della vita dell’autore. Il gesso è in mostra al Museo di Arte Contemporanea, a San Paolo del Brasile. Due calchi sono stati effettuati nel 1931 (uno è in mostra al Museum of Modern Art), due sono state effettuati nel 1949 (uno è in mostra alla Metropolitan Museum of Art [2], l’altro è esposto nel Museo del Novecento), e nel 1972 (uno è in mostra alla Tate Modern[4]), e altri otto nel 1972, non a partire dal gesso originale, ma da un calco del 1949.

Influenze

Nel 2009, il compositore italiano Carlo Forlivesi, in collaborazione con Stefano Fossati, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura in Melbourne, ha creato un concorso internazionale di composizione e laboratorio dal titolo: Forme uniche della continuità nello spazio (Forme Uniche della Continuità nello Spazio), per commemorare il centesimo anniversario del Futurismo italiano. Con un nome che richiama la famosa scultura dell’artista, l’iniziativa, organizzata annualmente, celebra il potere della musica mescolato alla forza della lingua italiana. Per realizzare questo connubio,un gruppo scelto di compositori giovani e di talento si è cimentato nella creazione di brevi composizioni musicali ispirandosi ad alcune poesie italiane contemporanee

Boccioni approfondisce la ricerca sul dinamismo, che nel 1912 lo porta a sperimentare la scultura.
Secondo l’artista, la scultura deve far vivere gli oggetti rendendo sensibile e materializzando il loro prolungamento nello spazio per effetto del movimento. L’oggetto è concepito come entità infinita. E’ qualcosa che non finisce e non ha limiti perchè con il suo movimento si propaga nello spazio, appartiene allo spazio e diventa spazio, mentre lo spazio vive nell’oggetto.
L’ambiente deve quindi formare un blocco unico con il soggetto plastico, si potrà così attuare una compenetrazione dinamica tra figura e spazio.  Questo è quello che Boccioni realizza in Forme uniche nella continuità dello spazio. Dell’opera, realizzata nel 1913, esiste la versione originale, in gesso, conservata a New York e alcune versioni fuse in bronzo, conservate in diversi musei, tra cui la Collezione Mattioli di Milano e una collezione privata di Roma.

In questa figura è come se la scia del corpo in corsa che attraversa lo spazio, si solidificasse. C’è una simultaneità delle fasi del movimento che nella realtà vengono scandite dal tempo. Il tempo viene eliminato in una sorta di condensazione, i momenti consecutivi si fondono in un momento unico e atemporale dove c’è una velocità ”congelata”. Eliminando il tempo che separa, divide le fasi del movimento della visione sequenziale, Boccioni realizza una sintesi tra figura e spazio. La continuità tra figura e spazio esiste perchè la figura è viva, si muove e il suo dinamismo le permette di diventare “continua”, quindi infinita, nello spazio.

Espressionismo – L’urlo

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L’URLO – EDVARD MUNCH

L'urlo - Munch

L’urlo, o anche Il grido, è un celebre dipinto di Edvard Munch (titolo originale in norvegese: Skrik).

Realizzato nel 1893 su cartone con olio, tempera e pastello, come per altre opere di Munch è stato dipinto in più versioni, quattro in totale; quella collocata alla Nasjonalgalleriet di Oslo ha dimensioni 83,5 x 66 centimetri.

Analisi dell’opera

L’opera è un simbolo dell’angoscia e dello smarrimento che segnarono tutta la vita del pittore norvegese che cercò molto a lungo un’ispirazione adatta ad eseguire quest’opera. La scena rappresenta un’esperienza vera della vita dell’artista: mentre si trovava a passeggiare con degli amici su un ponte della città di Nordstrand (oggi quartiere di Oslo), il suo animo venne pervaso dal terrore e colse l’attimo così dipinse questo personaggio. Così descrive la scena lo stesso Munch con alcune righe scritte sul suo diario mentre era malato a Nizza:

« Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. »

Si distinguono chiaramente sullo sfondo due persone, ferme in attesa lungo il ponte, forse estranee al terrore che angosciava il loro compagno. Mentre la bocca spalancata sembra emettere dei suoni che sconvolgono il paesaggio, con delle linee curve, ma non la strada, unica consigliera e amica dell’uomo, testimone talvolta del distacco, il volto deformato sembra un teschio; e anche il corpo sembra essere privo di colonna vertebrale. La funzione comunicativa prevalente individuata nel dipinto attraverso la lettura dell’opera è espressiva. L’uso del colore e gli accostamenti cromatici associati a lunghe pennellate tese a deformare i soggetti rappresentati suggeriscono uno stato emotivo di angoscia. L’associazione delle linee ondulate con le linee diagonali crea un senso di dinamicità che provoca tensione nell’osservatore. L’uso della luce contribuisce a far scaturire nell’osservatore un senso di inquietudine e dramma della natura poiché conferisce il senso dell’immediatezza dell’evento rappresentato, colpendo la figura principale frontalmente come se fosse illuminata dalla luce di un flash. Anche la composizione degli elementi costitutivi del quadro è orientata a sottolineare l’aspetto espressivo dell’opera mettendo in primo piano il soggetto che emette l’urlo, staccandolo dallo sfondo attraverso la frapposizione dell’elemento ponte.

L’artista ci offre il ricordo, lo scatto di quel momento per lui inspiegabilmente terrificante attraverso i suoi occhi. Filtra il reale attraverso il suo stato d’animo, la sua intima sofferenza, il pesante tanfo della paura. I colori del tramonto perforano la sua sensibilità con violenza, animandosi di cruenta intensità. Ed ecco che allora, nell’impeto dell’angoscia, l’uomo che urla solitario sul ponte perde ogni forma umana, diventa preda del suo stesso sentimento, serpentiforme, quasi senza scheletro, privo di capelli, deforme. Si perde insieme alla sua voce straziata ed alla sua forma umana tra le lingue di fuoco del cielo morente, così come morente appare il suo corpo, le sue labbra nere putrescenti, le sue narici dilatate e gli occhi sbarrati, testimoni di un abominio immondo. Munch parla con il suo linguaggio unico e drammatico dell’impotenza dell’uomo di fronte alla supremazia della natura, dello sgomento della follia, di fronte alla quale siamo piccoli ed inequivocabilmente soli. Il dipinto fa in realtà parte di un più vasto progetto, una narrazione ciclica intitolata “Il Fregio della vita” (1893-1918) composta da numerose tele elaborate secondo quattro temi fondamentali: Il risveglio dell’amore, L’amore che fiorisce e passa, Paura di vivere, di cui fa parte Il Grido, e La Morte.

Tale visione del Munch non va solo letta sul piano introspettivo, poiché può essere stato in parte un fenomeno naturale realmente accaduto a causa dell’eruzione vulcanica del Krakatoa i cui effetti di luci sono stati visibili sino in Norvegia.

Testimonianze di Munch

Dopo aver dipinto l’Urlo, Munch scrisse nel suo diario alcune pagine per spiegare la sua ispirazione e perché ha dipinto il quadro. Per Munch, come per molti altri artisti (per esempio Vincent Van Gogh), l’arte è un mezzo con cui si possono esprimere le proprie emozioni ed espiare i propri dolori. Munch e Van Gogh sono considerati precursori dell’Espressionismo per questo motivo. Ecco un testo tratto dal suo diario:

« Sì, qui in ospedale, in Danimarca, adesso sto benino. Penso che presto potrò tornare a casa, e ricominciare pian pianino i miei giretti lungo il corridoio, tra la pendola e il letto, tra la poltrona e la veranda. Forse potrò riprendere anche a dipingere: senza fretta, senza ansia, una pennellata dopo l’altra. Sì, le ultime crisi sono state proprio brutte. mi pareva di soffocare, il mondo mi girava intorno, quasi non riuscivo a stare in piedi: però ora va meglio, riesco a calmarmi, a guardarmi indietro, a ricordare, qualche volta a rivivere quelle emozioni… Siete mai stati in Norvegia? Lo sapete cosa vuol dire stare sul margine estremo, al Nord dell’Europa? Oh, certo, magari qualcuno di voi è venuto in vacanza, nella bella stagione, nelle lunghissime sere di giugno. Lo so benissimo, ci sono addirittura delle navi da crociera, piene di luci, con tanto di cabine di lusso, che percorrono i fiordi e approdano al porto della mia città, Oslo. Giorni magnifici, non discuto: i turisti sono entusiasti, guardano i fiordi, il sole di mezzanotte, il verde scintillante che scende fino al mare. Ma bisogna coglierli al volo: passano in fretta. Poi, le nuvole, la pioggia, il freddo, l’orizzonte che si fa grigio, la solitudine. Per me, cala l’angoscia. Ho il terrore di rimanere solo. Voi che venite in Norvegia d’estate dite che qui si sta bene, ma io da bambino, a soli cinque anni, ho visto morire mia madre di tubercolosi, poi mia sorella Sofia, quindi, improvvisamente, anche mio padre. Io stesso ho sempre avuto una salute fragile (lo ammetto: col tempo, la vodka e l’acquavite non mi hanno aiutato!), stretto da un’educazione puritana e moralista e le notti del grande Nord, gelido e inospitale. La pittura mi ha aiutato a guardare dentro me stesso, a trasmettere sentimenti ed emozioni […]. Ho letto i testi dei filosofi della Scandinavia e ho sentito parlare delle teorie sulla psiche umana sviluppate dal dottor Freud, a Vienna. Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere. […] Mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto. […] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano color rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. […] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare… Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io. […] L’intera scena sembra irreale, ma vorrei farvi capire come ho vissuto quei momenti. […] Attraverso, l’arte cerco di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo, e se possibile aiutare anche chi osserva le mie opere a capirle, a guardarsi dentro. »

Munch non era pazzo, ma più probabilmente affetto da “attacchi di panico” che rendono l’individuo una persona totalmente spaesata e confusa.

 

Questo è senz’altro il quadro più celebre di Munch ed, in assoluto, uno dei più famosi dell’espressionismo nordico. In esso è condensato tutto il rapporto angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita. Lo spunto del quadro lo troviamo descritto nel suo diario:

Camminavo lungo la strada con due amici

quando il sole tramontò

il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue

mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto

sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco

i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura

e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.

Lo spunto è quindi decisamente autobiografico. L’uomo in primo piano che urla è l’artista stesso. Tuttavia, al di là della sua relativa occasionalità, il quadro ha una indubbia capacità di trasmettere sensazioni universali. E ciò soprattutto per il suo crudo stile pittorico.

Il quadro presenta, in primo piano, l’uomo che urla. Lo taglia in diagonale il parapetto del ponte visto in fuga verso sinistra. Sulla destra vi è invece un innaturale paesaggio, desolato e poco accogliente. In alto il cielo è striato di un rosso molto drammatico.

L’uomo è rappresentato in maniera molto visionaria. Ha un aspetto sinuoso e molle. Più che ad un corpo, fa pensare ad uno spirito. La testa è completamente calva come un teschio ricoperto da una pelle mummificata. Gli occhi hanno uno sguardo allucinato e terrorizzato. Il naso è quasi assente, mentre la bocca si apre in uno spasmo innaturale. L’ovale della bocca è il vero centro compositivo del quadro. Da esso le onde sonore del grido mettono in movimento tutto il quadro: agitano sia il corpo dell’uomo sia le onde che definiscono il paesaggio e il cielo.

Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo. Sono sordi ed impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono gli amici del pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza della falsità dei rapporti umani.

L’urlo di questo quadro è una intesa esplosione di energia psichica. È tutta l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un grido liberatorio. Ma nel quadro non c’è alcun elemento che induca a credere alla liberazione consolatoria. L’urlo rimane solo un grido sordo che non può essere avvertito dagli altri ma rappresenta tutto il dolore che vorrebbe uscire da noi, senza mai riuscirci. E così l’urlo diviene solo un modo per guardare dentro di sé, ritrovandovi angoscia e disperazione

L’urlo

// // E’ uno dei capolavori più celebri di Munch e dell’arte contemporanea in generale.
E’ l’opera dove il simbolismo di Munch si fa più maturo e il suo messaggio più angosciante. Ha una qualità altissima, perchè chiunque, almeno una volta nella vita si può riconoscere in questo quadro.

Munch descrive la sua opera, ma già il titolo è significativo.
Non c’è migliore spiegazione del quadro di quella fornita dal suo stesso autore: <<Camminavo per strada con due amici. Il sole era al tramonto e cominciavo a sentirmi avvolto da un senso di malinconia. A un tratto il ciclo si fece rosso sangue. Mi fermai, appoggian-domi a una staccionata, stanco morto, e fissai le nubi infiammate che gravavano, come sangue e spada, sul fiordo nero-bluastro e sulla città. I miei amici continuaro-no a camminare. Io rimasi inchiodato in piedi, tremante di paura e udii un grido forte e infinito trafiggere la natura>>.

Il sentimento dell’angoscia viene trasferito allo spettatore non soltanto dal tema e dai colori, ma anche da alcune peculiarità della composizione.
La figura del personaggio in primo piano parte dal centro del quadro, in basso, ma poi devia leggermente senza peraltro arrivare a occupare decisamente la destra del quadro. Il bordo superiore della testa occupa quasi il centro della linea mediana della tela, ma il centro dell’attenzione, l’ovale nero della bocca, risulta spostato verso il basso e oppresso dalla parte alta della composizione, più forte anche in termini di colore.
Rispetto alla struttura consueta delle opere che contrappongono una figura umana a uno sfondo, come la ritrattistica più comune, la figura non occupa, dunque, un posto di rilievo o, comunque, la posizione che ci attenderemmo. Ciò provoca un senso di fastidio, il disagio di una situazione di squilibrio, disarmonia. Lo spazio sembra distorcersi sotto i nostri occhi.
Munch qui ci impedisce di identifìcare la sua composizione con un qualsiasi schema già praticato dalla storia dell’arte e dunque, in un certo senso, “accomodante”. Il quadro è diviso dalla diagonale della staccionata: manca un piano orizzontale evidente, una base sicura su cui appoggia la figura e il nostro stesso sguardo.

Il soggetto del quadro, come è indicato dal titolo, è l’urlo. Il suono acuto, lacerante che si sente all’improvviso e rappresenta in senso generale l’espressione dell’angoscia, del dolore e della paura. L’urlo parte dalla bocca spalancata della figura in primo piano e per la sua forza prorompente gli distorce la faccia che diventa un teschio, il corpo, privo di consistenza, diventa un’ombra ondeggiante (come un’ectoplasma). Uscendo da lui l’urlo stravolge il personaggio e sembra portargli via anche la sua consistenza concreta, lo lascia ridotto a una larva inconsistente. Proseguendo il suo percorso, l’urlo trascina via tutto, come una corrente gigantesca: trascina il paesaggio, risucchia il mare, il cielo, tutto l’universo in un gorgo che poi rifluisce e finisce di nuovo in questa bocca, come una massa liquida dentro uno scarico. La bocca da cui fuoriesce l’urlo, è nera e ovale, prima genera e poi raccoglie l’urlo. Tutta la scena è la metafora della disperazione e della morte che nasce nell’individuo, esce, travolge, spazza via tutto, poi torna nell’individuo distruggendolo.
La figura in primo piano, terrorizzata, disperata, si comprime la testa con le mani per far uscire l’urlo e la vita stessa: esprime la solitudine, l’isolamento della sua individualità, il dramma collettivo dell’incomunicabilità dell’umanità intera.

Questo personaggio non è un uomo, è uno spettro, un fantasma. Al posto del corpo ha un’ombra densa e ondeggiante, al posto della testa ha un cranio repellente, senza capelli, come un sopravvissuto a una catastrofe atomica. Le narici sono due fori, gli occhi sbarrati sembrano aver visto qualcosa di terribile, insopportabile, le labbra nere rinviano a quelle dei cadaveri. L’urlo è quello di chi ha perso sé stesso, il senso della vita, non trova più nulla a cui aggrapparsi, si sente solo e inutile fra gli altri.

Il ponte, in salita, la cui prospettiva si perde all’infinito richiama i mille ostacoli dell’esistenza di ognuno di noi che a volte sembrano essere insuperabili.
Il cielo è fatto di sangue, il mare è una massa nera oleosa.
Quello che non viene toccato da questo fatto terribile è la strada con i due personaggi a sinistra, che sembrano dei soldatini meccanici, ignari di tutto. Continuano a camminare, ignari o indifferenti al suo sgomento, alla sua lacerante disperazione. Rappresentano in modo crudo e lucido la falsità dei rapporti umani.

Dal punto di vista della biografia dell’artista, il quadro potrebbe rimandare alla perdita precoce della madre; si è anche ipotizzato che il ciclo rosso rimandi al sangue della madre morente, vista da Munch bambino in una crisi di tubercolosi. L’andamento labirintico delle curve al di sopra della testa sembra un prolungamento delle ellissi concentriche della bocca, del viso mummificato dalla paura, delle mani intorno alle orecchie. I fiordi e il cielo, la natura, diventano prolungamenti del sentire del protagonista, un labirinto fatto di linee ondulate, seguendo le quali l’occhio vaga senza punti di riferimento stabili: ricordiamo che il timore della perdita dell’equilibrio psichico, di cadere nella follia, caratterizzò l’intera vita dell’artista.

Da un punto di vista più generale, il quadro indica una compenetrazione tra le sensazioni individuali e la natura, che ricorda la sinestesia (unione di sensazioni provenienti da organi diversi) cara al poeta francese Baudelaire e a tutta la filosofìa e la letteratura del Romanticismo, soprattutto nella sua versione tedesca. Mentre, però, molti romantici del Primo Ottocento vedevano in questa compenetrazione un segno di armonia tra uomo e mondo, in questo caso l’armonia si spezza; la natura non regala più all’uomo alcuna serenità. L’individuo rimasto solo, ferito, trasferisce nella natura il proprio senso di perdita e la trasfigura in un lago di sangue (il rosso) e di lutto (il blu-nero).
La vita stessa (la strada) è una pista scoscesa e impossibile da percorrere, paralizzato com’è dall’inquietudine che avvolge, insieme a lui, tutte le cose.

Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo…Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando”.

 

Queste parole, scritte da Munch per descrivere “il grido”, danno solamente un’idea della forte sensazione che ha portato l’autore a realizzare quest’opera, di enorme portata rivoluzionaria, che anticipa la corrente dell’espressionismo e contiene in sé già tutti gli elementi che l’espressionismo stesso svilupperà da lì a pochi anni.

 Edvard Munch (1863-1944): “Il Grido” 1894 Olio, tempera e pastello su cartone

 cm. 91 x 73,5    Nasjonalgalleriet

Descrizione

“Il grido” (o “L’urlo”, come viene spesso chiamata l’opera nella traduzione italiana), fa parte di una serie di opere realizzate da Munch tra la fine dell’ottocento ed i primi del novecento e che l’autore stesso ha idealmente raccolto in una serie intitolata “Fregio della vita”.

Dell’opera esistono altre versioni, di cui alcune incisioni in bianco e nero che anticipano le versioni rese a colori. Una versione a colori anticipa di un anno questa prescelta: è un olio su tavola cm 83,5 x 66 ed è conservata ad Oslo al Munch Museet. La scelta della versione qui analizzata è stata orientata dalla maggiore possibilità di analisi coloristica dell’opera in relazione all’utilizzo congiunto di olio, tempera e pastello.

La prima impressione che l’osservatore ha guardando questa particolare opera di Munch, è di angoscia. Attraverso la forma ed i colori quest’opera riesce dunque a trasmettere una sensazione, e, la comunicazione, che prima con gli impressionisti si giocava tutta sull’impressione visiva si sposta adesso al livello dell’inconscio. L’opera agisce nell’animo stesso dell’osservatore perché è espressione diretta dell’animo dell’autore. Colori irreali, contrastanti, contorni dissolti, forme indefinite sembrano emergere dalla dimensione del sogno.

Lettura dell’opera

Ogni opera è frutto del contesto storico-culturale all’interno del quale è maturata. Se provassimo ad inquadrare l’opera di Munch in un altro periodo storico, ad esempio nel ‘500, questa ci apparirebbe come l’opera di un pazzo, o, quanto meno di una personalità deviata, ma questo non significa però che l’opera non si potrebbe analizzare ugualmente. L’opera pittorica ha infatti una sua struttura, risponde a codici precisi, alcuni dei quali comunicano con l’osservatore a prescindere dal contesto culturale e storico all’interno del quale l’opera è maturata (un’opera comunica con il linguaggio universale dell’arte!), però, la valutazione all’interno del giusto contesto storico-culturale ci aiuta a capire meglio le condizioni che hanno spinto l’autore a concepire quella determinata opera ed il valore comunicativo della stessa. Ad esempio, se trovassimo un grattacielo di ferro e vetro in una calda isoletta della Grecia, accanto alle piccole e candide casette tipiche di quella regione questo ci apparirebbe del tutto inadeguato a quel paesaggio perché lo giudicheremmo lontano dalle ragioni di tipo climatico e socio-economico che hanno invece fatto sì che nelle isole greche si sviluppasse un altro tipo di architettura. Ciò però non significa che non si potrebbe ugualmente studiare il grattacielo osservandone la forma, il materiale, la struttura… quindi, dopo avere analizzato il grattacielo, rimettiamolo a New York! E capiremo perché questo tipo di struttura trovi lì una sua logica.

   Le tappe su cui si basa il procedimento di lettura dell’opera sono articolate secondo diversi livelli di lettura orientati a:

  • ·          riconoscere nei i singoli codici (linee, colori, luci, ombre);
  • ·          riconoscere le regole dei codici visivi;
  • ·          individuare i significati dei singoli codici e delle regole;
  • ·          individuare le funzioni prevalenti;
  • ·          inserimento dell’opera all’interno del contesto

 

L’AUTORE ed il CONTESTO STORICO

Edvard Munch (1863-1944), norvegese, si forma intorno al 1880 in ambito naturalista. Le sue opere iniziali sono caratterizzate da una pittura a toni scuri. Nel 1885 un soggiorno a Parigi lo mette in contatto con l’ambiente degli impressionisti, ma quasi subito la pittura di Munch si orienta verso una ricerca del colore che conduce ad un uso non descrittivo ma funzionale dello stesso, tutto orientato a provocare stati d’animo nell’osservatore. Presto Munch si avvia anche ad una deformazione dei soggetti rappresentati che contribuiscono a suggerire precisi stati emotivi. L’alterazione a fini espressivi della forma e del colore è il mezzo attraverso il quale Munch perviene ad una personalissima interpretazione dell’angoscia esistenziale dell’uomo e la rende visibile. Nel 1892 si svolse a Berlino una mostra di opere di Munch. Venne chiusa d’autorità per lo scalpore suscitato. L’orrore di essere messi di fronte alle proprie angosce esistenziali ed il particolare clima culturale e politico favorirono questo esito che è quasi emblematico se consideriamo che esso conferma proprio il contenuto dell’opera “il grido”, dove è raffigurato un uomo che si rifiuta di sentire il suo stesso urlo di dolore. L’opera di Munch non tardò però ad esercitare una forte influenza in coloro i quali, in polemica con gli ambienti accademici e la morale borghese del tempo, divennero fautori del movimento di Secessione di Berlino del 1898.

FUNZIONE COMUNICATIVA

La funzione prevalente individuata nel dipinto attraverso la lettura dell’opera è:

ESPRESSIVA   L’uso, alterante della realtà, del colore e gli accostamenti cromatici associati a lunghe pennellate tese a deformare i soggetti rappresentati suggeriscono uno stato emotivo di angoscia. L’associazione delle linee ondulate con le linee diagonali crea un senso di dinamicità che provoca tensione nell’osservatore. L’uso della luce contribuisce a far scaturire nell’osservatore un senso di inquietudine poiché conferisce il senso dell’immediatezza dell’evento rappresentato, colpendo la figura principale frontalmente come se venisse illuminata dalla luce di un flash. Anche la composizione degli elementi costitutivi del quadro è orientata a sottolineare l’aspetto espressivo dell’opera mettendo in primo piano il soggetto che emette l’urlo, staccandolo dallo sfondo attraverso la frapposizione dell’elemento ponte.

Cubismo – Les Damoiselles d’Avignon – Guernica

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LES DAMOISELLES D’AVIGNON – PABLO PICASSO

Les damoiselles d'Avignon

Les Demoiselles d’Avignon è uno dei più celebri dipinti di Pablo Picasso. È un olio su tela, realizzato nel 1907, di misura cm 243,9 x 233,7. È conservato al MoMA di New York.

Il quadro mostra cinque prostitute in un bordello di calle Avignon, a Barcellona. Picasso creò oltre un centinaio di studi preparatori e schizzi in preparazione a questo lavoro, uno dei più importanti nello sviluppo iniziale del Cubismo.

Quando fu esposto per la prima volta nel 1916, il quadro fu tacciato di immoralità. Molti critici trovarono delle somiglianze tra quest’opera e Les Grandes Baigneuses di Cézanne, connessioni messe però in discussione dai commentatori successivi.

Picasso dipinse in maniera differente ciascun personaggio. La donna che tira la tenda sul fondo è cosparsa di un pesante strato di vernice. La sua testa è la più cubista di tutte e cinque, e rappresenta una forma geometrica acuta. La testa cubista della figura che si accascia ha subito almeno due revisioni e dalla figura originale di iberico è passata alla sua forma attuale. Le maschere sembrano derivare dalle maschere tribali africane. Si pensa che Maurice Vlaminck abbia introdotto Picasso alla scultura africana di tipo Fang nel 1904. La scultura Fang del XIX secolo è simile nello stile a ciò che Picasso vide a Parigi poco prima de Les Demoiselles d’Avignon. Una possibile ispirazione: Les grandes Baigneuses (1906) di Paul Cézanne. La maggior parte del dibattito critico negli anni si è concentrato sul tentativo di identificare la molteplicità di stili all’interno dell’opera. L’opinione dominante per oltre cinque decadi, esposta in particolare da Alfred Barr, il primo direttore del Museum of Modern Art di New York e organizzatore di molte retrospettive sulla carriera dell’artista, è stata che l’opera si può interpretare come una prova del periodo di transizione nell’arte di Picasso, uno sforzo di connettere i suoi primi lavori al cubismo, uno stile a cui avrebbe collaborato e sviluppato per i seguenti cinque o sei anni.

Nel 1974, tuttavia, il critico Leo Steinberg nel suo fondamentale saggio The Philosophical Brothel propose una spiegazione completamente diversa per il gran numero di attributi stilistici. Basandosi su precedenti studi preparatori, ignorati completamente da molti critici, sostenne che la varietà di stili può essere vista come un deliberato tentativo, finemente pianificato, di catturare lo sguardo di colui che guarda. Scrutò che le cinque donne sembrano ignorarsi l’un l’altra. Piuttosto, si focalizzano solo su chi osserva, e i loro stili divergenti collaborano a renderle più facilmente notabili.

I primi disegni di quest’opera in realtà rappresentano due uomini in un bordello, un marinaio e uno studente di medicina (spesso rappresentato con un libro o un teschio in mano, cosa che portò Barr e altri a interpretare il dipinto come un memento mori). Rimane traccia della loro presenza in un tavolo al centro: lo spigolo sporgente di un tavolo vicino al fondo della tela. L’osservatore, secondo Steinberg, sta ora al posto dei due uomini seduti, obbligato ad affrontare la vista delle prostitute dritto di fronte a sé, evocando così letture molto più complesse di una semplice allegoria o di un’interpretazione autobiografica che tenta di comprendere l’opera in relazione alla storia di Picasso con le donne. Un mondo di significati quindi diviene possibile, proponendo l’opera come una meditazione sui pericoli del sesso, il “trauma dello sguardo”, secondo una definizione di Rosalind Krauss, e la minaccia della violenza inerente alla scena e al rapporto sessuale in generale.

Secondo Steinberg, lo sguardo obliquo, ovvero il fatto che le figure guardino direttamente l’osservatore, così come l’idea della donna così padrona di sé, che non è presente solo per il piacere maschile, possono essere fatti risalire all’Olympia di Manet del 1863.[1]

Il libro “Les Demoiselles D’Avignon” di William Rubin, Helene Seckel e Judith Cousins, del 1994, è un’analisi profonda dell’opera e della sua genesi. Rubin suggerisce che alcuni visi delle figure simbolizzino lo sfiguramento provocato dalla sifilide e che il dipinto sia stato realizzato dopo una serie di visite in un bordello dove Picasso, all’epoca temporaneamente separato dalla sua amante, Fernande Olivier, si recava. Rubin interpreta il dipinto come l’espressione dell’ateismo dell’artista, la sua volontà di rischiare l’anarchia per la libertà, la sua paura della malattia e dell’infermità e, soprattutto la paura e il disprezzo fortemente radicati per il corpo femminile, che conviveva con il desiderio per esso e una sua estatica idealizzazione” .

Nel 2004 un episodio della serie della BBC The Private Life of a Masterpiece aveva come oggetto Les Demoiselles D’Avignon e riferiva che Picasso negò l’influenza delle maschere africane sulla sua pittura: “l’arte africana, mai sentito parlarne”. Tuttavia, è certo che Picasso avesse visto delle maschere africane mentre lavorava ai suoi dipinti, durante una visita al Museo etnografico del Trocadero, su cui più tardi disse: “Andare al Trocadero fu disgustoso. Le mosche, il mercato, l’odore. Ero tutto solo. Volevo andarmene, ma non lo feci. Rimasi, rimasi. Capii che si trattava di qualcosa di importante. Mi stava accadendo qualcosa. Le maschere non assomigliavano a nessun’altra scultura, per nulla.”

 

L’opera che inaugura la stagione cubista di Picasso è il quadro «Les demoiselles d’Avignon». Il quadro è stato realizzato tra il 1906 e il 1907. Le numerose rielaborazioni e ridipinture ne fanno quasi un gigantesco «foglio da schizzo» sul quale Picasso ha lavorato per provare le nuove idee che stava elaborando. Il quadro non rappresenta un risultato definitivo: semplicemente ad un certo punto Picasso ha smesso di lavorarci. Lo abbandona nel suo studio, e quasi per caso suscita la curiosità e l’interesse dei suoi amici. Segno che forse neppure l’artista era sicuro del risultato a cui quell’opera era giunta. Anche il titolo in realtà è posticcio, avendolo attribuito il suo amico André Salmon.

Il soggetto del quadro è la visione di una casa d’appuntamento in cui figurano cinque donne. In origine doveva contenere anche due uomini, poi scomparsi nelle successive modifiche apportate al quadro da Picasso. L’analogia più evidente è con i quadri di Cézanne del ciclo «Le grandi bagnanti». Ed è praticamente certo che Picasso modifiche continuamente questo quadro proprio per le sollecitazioni che gli vengono dalla conoscenza delle opere di Cézanne.

Il risultato a cui giunge è in realtà disomogeneo. Le due figure centrali hanno un aspetto molto diverso dalle figure ai lati. In queste ultime, specie le due di destra, la modellazione dei volti ricorda le sculture africane che in quel periodo conoscevano un momento di grande popolarità tra gli artisti europei.

Ciò che costituisce la grande novità dell’opera è l’annullamento di differenza tra pieni e vuoti. L’immagine si compone di una serie di piani solidi che si intersecano secondo angolazioni diverse. Ogni angolazione è il frutto di una visione parziale per cui lo spazio si satura di materia annullando la separazione tra un corpo ed un altro.

Le singole figure, costruite secondo il criterio della visione simultanea da più lati, si presentano con un aspetto decisamente inconsueto che sembra ignorare qualsiasi legge anatomica. Vediamo così apparire su un volto frontale un naso di profilo, oppure, come nella figura in basso a destra, la testa appare ruotata sulle spalle di un angolo innaturale. Tutto ciò è comunque la premessa di quella grande svolta, che Picasso compie con il cubismo, per cui la rappresentazione tiene conto non solo di ciò che si vede in un solo istante, ma di tutta la percezione e conoscenza che l’artista ha del soggetto che rappresenta.

 

GUERNICA – PABLO PICASSO

Guernica

Guernica è il titolo di un noto dipinto di Pablo Picasso, realizzato dopo il bombardamento aereo della città omonima durante la guerra civile spagnola da parte della Legione Condor, corpo volontario composto da elementi della tedescaLuftwaffe, il 26 aprile1937.

Caratteristiche

 

Per incarico del governo repubblicano spagnolo il quadro era destinato a decorare il padiglione spagnolo durante l’Esposizione mondiale di Parigi del 1937. Dopo l’esposizione, quando il governo repubblicano era ormai caduto, Picasso non permise che il suo dipinto più famoso venisse esposto in Spagna, dichiarando esplicitamente che avrebbe potuto tornarvi solo dopo la fine del franchismo. Venne quindi ospitato per molti anni al Museum of Modern Art di New York, tornò in patria nel 1981 ad otto anni dalla morte di Picasso e sei da quella di Francisco Franco. Durante gli anni ’70 fu un simbolo per gli spagnoli sia della fine del regime franchista che del nazionalismo, così come lo era stato prima, per tutta l’Europa, della resistenza al nazismo. L’artista prese spunto in modo particolare da un articolo in cui il giornalista descrisse la brutalità dell’evento evidenziando anche attraverso una fotografia che la città era stata completamente rasa al suolo.

Dapprima Guernica fu esposto al Casal del buen ritiro, poi al Prado ed infine al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia.

L’artista spagnolo esprime in Guernica la sua opposizione ai regimi totalitari che si diffusero in Europa nel corso del XX secolo e lo fa mediante la rappresentazione di un terribile evento bellico: la distruzione durante la Guerra civile spagnola. Nell’opera però non ci sono elementi che richiamino al luogo o al tempo dell’accaduto e niente ci indica che si tratti di un bombardamento ad eccezione di quello che a destra può sembrare un palazzo in fiamme. È piuttosto una protesta contro la violenza, la distruzione, la guerra in generale. L’interpretazione che si può dare al toro che appare nella parte sinistra del quadro rappresenta la brutalità e l’oscurità, che contribuisce proprio a spiegare il significato del quadro. La lampada ad olio in mano ad una donna che scende le scale e posta al centro dell’opera indica l’involuzione tecnologica e sociale che ogni guerra, insieme alla distruzione, porta con sé, la colomba a sinistra, richiamo alla pace, ha un moto di strazio prima di cadere a terra, mentre il cavallo agonizzante simboleggia il popolo spagnolo degenerato. La violenza e la sofferenza traspaiono esplicitamente guardando sulla sinistra dell’opera la madre che grida al cielo disperata con in grembo il figlio ormai senza vita; da contraltare ad essa l’altra figura apparentemente femminile a destra che alza disperata le braccia al cielo. In basso nel dipinto c’è un cadavere con una stigmate sulla mano sinistra come simbolo di innocenza in contrasto con la crudeltà nazi-fascista e nella mano destra stringe una spada spezzata da cui sorge un pallido fiore quasi a dare speranza per un futuro migliore.

L’alto senso drammatico nasce dalla deformazione dei corpi, dalle linee che si tagliano vicendevolmente, dalle lingue aguzze che fanno pensare ad urli disperati e laceranti, dall’alternarsi di campi bianchi, grigi, neri, che accentuano la dinamica delle forme contorte e sottolineano l’assenza di vita a Guernica. Enormi dimensioni furono scelte perché questo quadro doveva anche rappresentare una sorta di manifesto che “esponesse” al mondo la crudeltà e l’ingiustizia delle guerre.

Guernica di Pablo Picasso è uno dei dipinti più famosi del mondo, oltre che uno dei più importanti capolavori realizzati dall’artista spagnolo. L’aspetto curioso però è legato al fatto che pur essendo un dipinto universalmente noto ed amato, non è molto chiaro il significato dei vari personaggi ed elementi inseriti da Picasso nella scena.

Di certo sappiamo che è ispirato al bombardamento della città basca di Guernica nel 1937 ad opera dell’aviazione tedesca durante la guerra civile spagnola. Apro una breve parentesi storica per inquadrare il contesto: l’evento fece grande scalpore e Guernica in qualche modo divenne una città simbolo delle atrocità della guerra, anche perché è stato il primo bombardamento aereo.  C’è da notare che quello era giorno di mercato e di conseguenza dalle campagne vicine affluivano tante persone, questo ovviamente aumentò notevolmente il numero di vittime tra la popolazione.

Venuto a conoscenza dell’episodio, Picasso volle esprimere la sua rabbia e far conoscere al mondo le atrocità che avvenivano nel suo paese, con un’opera che avrebbe presentato all’esposizione mondiale di Parigi nel padiglione spagnolo.

Al di là delle possibili interpretazioni delle varie figure, Guernica esprime con forza e mostra gli orrori della guerra. Di fatto è un’opera senza tempo che si potrebbe applicare a tutte le guerre. Ma proviamo comunque ad esaminare i vari dettagli per una possibile interpretazione.

Comincio dall’utilizzo dei colori: il quadro è sostanzialmente monocromo, a mio avviso il riferimento va chiaramente alle foto dell’epoca che erano sviluppate in bianco e nero. Un po’ come se si trattasse di un documento, di una testimonianza diretta.

La scena si svolge in una strada o in una piazza della città di Guernica: per quanto stilizzati si vedono case e palazzi in fiamme a causa delle bombe. Seguendo la direzione di lettura canonica da sinistra a destra si incontra una donna che urla di dolore con in braccia il figlioletto morto. Ricorda le rappresentazioni della Pietà con la Madonna che tiene in grembo Cristo appena deposto dalla croce. L’immagine è piuttosto forte grazie sopratutto al collo e alla testa che si allungano verso il cielo, non si capisce se in un’invocazione o in un’imprecazione verso un nemico che non si vede direttamente ma si percepisce.

Sopra la donna c’è un toro, e qui già ci sono due possibili interpretazioni del tutto divergenti. Il toro potrebbe simboleggiare il popolo spagnolo (non a caso tuttora la sagoma stilizzata del toro rappresenta la Spagna) che assiste impotente a questo scempio oppure il toro è il nemico, è la causa del disastro, la brutalità (non a caso nei molti disegni preparatori Picasso ha realizzato anche l’immagine del minotauro, la creatura mezzo uomo, mezzo animale.)

Nel groviglio centrale c’è un cavallo agonizzante che si contorce dal dolore delle ferite e potrebbe rappresentare l’umanità sofferente. L’altro riferimento potrebbe essere legato alla corrida, dove in una delle varie fasi i cavalli entrano nell’arena con i picadores e spesso vengono incornati dal toro.

Il soldato caduto dovrebbe essere un riferimento ai soldati spagnoli fedeli alla repubblica e morti durante la guerra. A me viene in mente la celebre foto scattata l’anno prima di Guernica, dal reporter americano Robert Capa, con il soldato repubblicano che muore colpito in battaglia.

In alto c’è una lampadina elettrica, che rappresenta con tutta probabilità il sole, ma potrebbe anche essere un occhio che osserva. Mentre non dovrebbero esserci dubbi sulla donna con la lampada in mano che cerca di illuminare la scena. Rappresenta la verità che deve far luce sull’accaduto per renderlo visibile a tutti: tutti devono conoscere le atrocità che vengono commesse in Spagna.

In basso a destra c’è un’altra donna che sembra rialzarsi da terra e guarda verso il cielo per capire cosa sta succedendo. Viene di solito associata alla saggezza o alla scienza: cerca la luce e guarda verso l’alto. In altre parole cerca qualcosa che la aiuti a capire questo disastro.

L’ultima immagine è una delle più drammatiche: una donna che muore bruciata a causa delle fiamme che avvolgono anche la sua casa. Il riferimento artistico qui va alle immagini della Maddalena ai piedi della croce, o nel compianto di Cristo, quando manifesta il suo dolore alzando le braccia al cielo in segno di disperazione.

Al di là delle molte possibili interpretazioni delle singole figure, Picasso in Guernica comunica in modo immediato l’orrore e la sofferenza provocati dalla guerra, da qualsiasi guerra e probabilmente la sua genialità sta anche in questo: nell’aver creato, pur facendo riferimento ad un fatto storico ben preciso, un capolavoro che parla un linguaggio valido in ogni tempo e in ogni luogo.